Rivista bimestrale Voce Romana
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Se l’efficace uso delle flotte militari consentì ai Romani di sbarcare ed affermarsi su tutte le sponde del Mediterraneo e poi di mantenere la pace e la sicurezza all’interno dell’Impero, un ruolo alquanto importante venne assolto anche dalla marina mercantile romana grazie all’intraprendenza dei suoi armatori. Questi ultimi, in effetti, iniziarono molto presto (probabilmente fin dall’età regia) ad inviare le proprie navi verso lidi remoti, molto al di là di quelli controllati da Roma, alla ricerca delle derrate più necessarie e delle merci più redditizie. Tale propensione rimase poi costante, visto che ogni nuova estensione delle rotte commerciali romane avvenne molto prima dell’espansione del dominio di Roma in quella stessa direzione. Lo si riscontra, ad esempio, dalla presenza di navi da carico romane nel nord-Africa prima della prima guerra contro Cartagine, sulla costa orientale dell’Adriatico prima delle guerre Illiriche, nei porti della Spagna fra l’Ebro e i Pirenei prima della guerra Annibalica, nel Mediterraneo orientale prima delle numerose guerre scatenate dai regni ellenistici, e perfino al di là della Manica prima della conquista della Britannia.
È peraltro evidente che nessun Romano avesse dubbi sugli enormi guadagni conseguibili con il commercio marittimo, tanto che, verso l’inizio della seconda guerra Punica, i senatori contestarono furiosamente il loro collega Gaio Flaminio, reo di aver favorito l’approvazione della legge che, proposta dal tribuno della plebe Quinto Claudio, vietava loro di armare più di una nave e di superare la stazza di 300 anfore (circa 8 tonnellate), con il pretesto che la lucrosa attività mercantile fosse indecorosa per i membri del Senato. Questa legge, che evidentemente estrometteva la concorrenza dei senatori dal commercio marittimo, piacque talmente al popolo da indurlo ad eleggere il predetto Flaminio quale console del 217 a.C. (anno in cui proprio quel console doveva purtroppo perdere la vita insieme a 15.000 legionari, travolti da Annibale sulle rive del lago Trasimeno).
Meno di vent’anni dopo, Plauto metteva in scena la sua commedia "Stichus", in cui uno dei protagonisti si vantava dei suoi traffici navali che, avendo superato indenni le tempeste, gli avevano fatto quadruplicare il capitale. Ma anche con qualche inevitabile perdita dovuta al mare in burrasca, il commercio marittimo era comunque remunerativo: nel "Satyricon" di Petronio è emblematico quel personaggio che, avendo avuto l’incredibile sfortuna di perdere per naufragio le cinque sue navi mercantili appena varate, anziché scoraggiarsi ne aveva subito approntate altre più grandi e capienti, che caricò di merci ben sapendo che ci avrebbe comunque guadagnato. Va anche detto che la generalizzata tendenza verso una sempre più audace sfida alla potenza del mare venne biasimata da diversi autori latini (fra i quali Cicerone, Ovidio, Seneca e Plinio il Vecchio), ma non per timori superstiziosi o per un eccesso di prudenza, bensì per stigmatizzare l’incontenibile cupidigia che pervadeva tutti quelli che gestivano dei commerci navali.
In epoca imperiale, le ottimali condizioni di sicurezza stabilite sull’intero Mediterraneo e sulle acque oceaniche che bagnavano le coste occidentali dell’Europa favorirono un ulteriore incremento dei traffici marittimi destinati a collegare Roma con le sue province d’oltremare, assicurando in tal modo la possibilità di amministrarle con la necessaria efficienza e tempestività. Nel contempo, la maggiore disponibilità di naviglio mercantile consentì anche un sensibile allungamento delle rotte marittime al di là dei confini dell’Impero. Verso settentrione, i marittimi romani commerciarono con le popolazioni primitive nordiche, penetrando anche nel mar Baltico e raggiungendo perfino la misteriosa isola di Tule (oltre il Circolo Polare Artico), secondo quanto riferito da Procopio di Cesarea. Verso Ponente, essi toccarono sicuramente l’Irlanda e le Canarie, mentre è anche verosimile che qualche nave sia stata fortunosamente portata dal maltempo sulle coste americane (come alcuni indizi hanno lasciato supporre), pur trattandosi comunque di eventi storicamente irrilevanti visto che il vecchio mondo non ne ebbe notizia. Verso sud, le navi dell’Impero romano commerciarono con tutti i porti dell’Africa orientale fino all’altezza di Zanzibar e forse oltre, acquisendo quindi anche la conoscenza delle costellazioni dell’emisfero australe. Verso Levante, infine, si stabilirono le rotte commerciali più proficue, che furono percorse con frequenza annuale dalle navi dirette nei porti dell’India e vennero successivamente prolungate al golfo del Bengala ed al Mar Cinese Meridionale, fino a raggiungere le coste della lontanissima Serica, l’odierna Cina.
Per rendere sicuri i viaggi delle navi onerarie che navigavano nell’oceano Indiano, perennemente soggetto alla minaccia dei pirati, vi si facevano imbarcare dei reparti di arcieri, né più né meno come si fa oggigiorno con i Fucilieri del Reggimento S. Marco esattamente per lo stesso motivo. Nel Mediterraneo, per contro, la vigilanza delle flotte romane inibì il risorgere della pirateria. In tali condizioni, i traffici marittimi raggiunsero in epoca imperiale un livello ampiamente superiore a quanto fosse mai avvenuto in precedenza, livello rimasto poi insuperato fino all’epoca moderna.
Lo straordinario sviluppo della navigazione fu dovuto alla ben nota capacità organizzativa dei Romani, agli incentivi decretati da molti imperatori a favore degli armatori, ai progressi nel campo delle costruzioni navali, nonché alla realizzazione di grandi opere marittime ed infrastrutture su tutti i litorali dell’Impero. Gli sforzi maggiori furono ovviamente dedicati all’imponente complesso portuale marittimo di Roma, denominato Porto Augusto (Portus Augustus Urbis Romae) o semplicemente Porto, progettato da Cesare, iniziato da Claudio, inaugurato da Nerone e completato da Traiano. Si trattò del maggior porto artificiale dell’antichità classica e costituì il nodo centrale della fitta rete delle linee di comunicazione marittime dell’Impero. Se ne possono tuttora vedere molti resti nell’area compresa fra l’aeroporto di Fiumicino ed il lago di Traiano.
L’eccezionale rilevo assunto dalle attività marittime nel mondo romano determinò un corrispettivo ampliamento delle strutture portuali fluviali dell’Urbe. Fin dall’inizio del II secolo a.C. le banchine dell’antico Portus Tiberinus risultarono non più sufficienti per l’ormeggio di tutte le navi necessarie per le crescenti esigenze di approvvigionamento della città. Per disporre di maggior spazio venne prescelta l’ampia area pianeggiante che si stendeva più a valle, sempre sulla riva sinistra del Tevere, a sud-ovest dell’Aventino, cioè appena al di fuori della cinta muraria repubblicana. In quella vasta superficie extraurbana (destinata a diventare parte integrante della città e ad essere poi inglobata nelle mura Aureliane) venne progressivamente edificato il gigantesco complesso monumentale costituito dalle strutture del maggior porto fluviale dell’Urbe, che i Romani chiamarono Emporium.
L’allestimento dell’Emporio iniziò nel 193 a.C. con la prima sistemazione delle banchine e delle relative pietre di ormeggio, e con la costruzione del Portico Emilio (in latino: la Porticus Aemilia, dal nome gentilizio dei due edili che realizzarono l’opera). Questo fu il più vasto degli edifici adibiti a magazzino mai costruito dai Romani: era lungo quasi 500 m e largo 60, ed era suddiviso in 7 navate parallele al Tevere e digradanti verso di esso, ed in 50 navate perpendicolari al fiume, larghe 8,30 m e coperte con volte a botte. Ve ne sono alcuni cospicui resti nel quinto e nel sesto isolato sulla destra di Via Giovanni Branca, partendo da Via Marmorata.
Meno di vent’anni dopo, l’intera area dell’Emporio fu lastricata e recintata. L’ambito portuale si popolò successivamente di un gran numero di "horrea", vasti magazzini per il deposito delle merci. I maggiori fra questi edifici furono gli Horrea Sempronia, Galbana, Lolliana, Seiana ed Aniciana. Quelli più noti sono i secondi, che presero il nome da Servio Sulpicio Galba, console nel 108 a.C.: situati dietro il Portico Emilio, misuravano 180 m per 130 ed erano divisi in tre ampi cortili rettangolari porticati, sui quali si aprivano gli ambienti usati per la conservazione delle derrate.
A sud dei magazzini portuali vi era la discarica dei cocci delle anfore svuotate: questi contenitori di prodotti alimentari (olio, vino, garum, miele, olive, granaglie, ecc.) venivano infatti utilizzati una sola volta ed andavano distrutti a fine viaggio. L’accumulo dei cocci di circa 25 milioni di anfore pervenute dalla Spagna e dal nord-Africa, perlopiù in epoca imperiale, ha formato l’attuale Monte Testaccio (“l’ottavo colle” di Roma), alto quasi 35 m sulla pianura circostante, con un perimetro di poco meno di un chilometro ed una superficie di circa 20.000 mq.
I più suggestivi resti dell’Emporio attualmente visibili sono quelli delle strutture che appaiono come una lunga successione di arcate su più piani, aperte verso il fiume e addossate al muraglione del lungotevere Testaccio. In origine si trattava di una serie di ambienti aventi la funzione di magazzini ed argine, essendo anticamente aperti verso l’interno e chiusi verso il fiume da muraglioni inclinati. Davanti a questi muraglioni vi erano le banchine (su più livelli, per tener conto delle piene), pavimentate con lastre di travertino, ove venivano sbarcate le merci provenienti da tutto il mondo.
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